Per una discussione/dibattito sul Mezzogiorno e sulle necessità di una classe dirigente rinnovata, ringiovanita e forte di una scala di valori ed ideali etici e morali. Cos’è il Mezzogiorno? Cos’è la ‘Questione Meridionale’ seguente all’Unità d’Italia? Oggi nel 2009 è ancora plausibile, nel contesto europeo e globale, parlare di Mezzogiorno? E la ‘Questione Meridionale’ è, oramai, un dato storico ma superato, o è una realtà attuale verso cui tutti, indistintamente, hanno il dovere etico, morale e politico di agire?
E’ opportuno innanzitutto inquadrare ciò di cui si sta parlando.
Analizzando il processo di unificazione economica del Paese, è necessario che esso venga visto innanzitutto come una questione etico-politica, in questo senso è bene riflettere su ciò che Benedetto Croce scriveva in Storia del Regno di Napoli: “bisogna con ogni cura guardarsi dal compiere un indebito trapasso dalla storia etica e politica alla storia economica e sociale e pretendere di ritrovare in questa il movimento storico e la virtù nazionale che si deve invece ritrovare e mostrare nell’altra”.
Ecco quindi che l’imperativo etico, prima che politico od economico, deve esser usato per analizzare d interpretare la questione intorno al Sud dell’Italia.
Lo stesso concetto è espresso dall’economista Pasquale Saraceno: “Se la storia recente ha profondamente cambiato i termini economici e tecnici della questione meridionale, la sua essenza resta quella indicata dai grandi meridionalisti del passato: quella, cioè, di una grande questione etico-politica, che investe le stesse fondamenta morali della società nazionale e dello Stato unitario”.
Egli riconosceva che alle politiche di risanamento attuate dai vari Governi unitati si opponevano, più o meno apertamente, interessi di natura corporativa che apparivano tanto più forti, quanto più dispersi e politicamente più deboli sono coloro che si riconoscono nella finalità dell’unificazione economica e sociale del Paese.
Risulta evidente la ferma consapevolezza che la questione dell’unificazione economica dell’Italia sia anche una questione di unificazione politica, perché l’obiettivo del superamento del divario tra il Nord e il Mezzogiorno chiama in ausa le responsabilità dello Stato e perché il permanere di quel divario può riflettersi negativamente sulla stessa unità nazionale, con conseguenze che a lungo andare potrebbero risultare fatali anche dal punto di vista politico.
A partire da ciò è bene appurare, anche, che l’unione forzata in un grande Stato, nel 1861, ha determinato la dispersione di una parte rilevante delle inestimabili ricchezze culturali del regno, che da quella data, ridotto a provincia e identificato solo come “Mezzogiorno”, è diventato oggetto di studio e di analisi da parte di scienziati sociali, di antropologi e di politici, costituenti la categoria dei “meridionalisti”.
Costoro hanno decretato che il Mezzogiorno è in ritardo, perché è rimasto indietro rispetto al resto della penisola; è sottosviluppato, perché non è cresciuto come ci si aspettava; è malato, a causa di una malformazione congenita o di un virus acquisito.
Dunque Il meridionalismo diventa la griglia interpretativa attraverso cui accostarsi alla storia del Sud, che è ridotta alla storia della Questione Meridionale, cioè l’insieme dei tentativi compiuti dallo Stato Italiano per sanare la lacerazione sociale e morale conseguente all’incontro-scontro fra realtà disomogenee.
Questo contrasto è associato dal politologo Ernesto Galli della Loggia “alla percezione di una diversità etico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana”ed è definito dall’antropologo Carlo Tullio Altan come “uno scontro di civiltà”, cioè un urto fra differenti modelli culturali e forme diverse d’organizzazione sociale, che dopo l’Unità sarà affrontato soprattutto come un problema di sviluppo economico ineguale o di ritardo civile.
Ecco dunque che, secondo uno schema ormai ricorrente nella storia dei popoli, questo scontro di civiltà viene a determinare il destino dei vincitori e dei vinti, gli uni portatori di valori etici, politici ed economici superiori da seguire (o inseguire) gli altri ridotti a terra di conquista.
In realtà, anche in virtù di quanto analizzato, è chiaro che il Mezzogiorno non parte da zero.
Quanto sopravvive, anche nel campo della grande industria, è di qualità internazionale; sarebbe errato ritenere che il futuro di un Mezzogiorno più evoluto, economicamente e socialmente, possa vedere l’industria ridotta al margine.
Per questo è doveroso ritrovare quella forza morale sufficiente a recuperare il senso del bene comune, a costo di sacrifici e di privazioni; ma per trovare l’energia sufficiente dobbiamo rivolgere la mente al nostro passato, a quello stato d’animo collettivo di orgoglio, di senso comune, di dignità.
La storia del Sud dunque non coincide né deve coincidere con la Questione Meridionale .
Il Sud non è un’area arretrata o sottosviluppata, o un Nord mancato, ma piuttosto una società dotata di una forte personalità storica e di un’inconfondibile fisionomia, in cui si sono riconosciute per lunghissimo tempo tutte le sue componenti sociali.
Il Sud non è neppure una periferia d’Europa, caratterizzata da una unga separazione dal mondo civile o da note di subalternità o di arcaicità, né è il luogo di coltura della “napoletanità”, intesa come un isolato universo antropologico e culturale.
Al contrario, la civiltà del Mezzogiorno è stata una delle molteplici versioni della civiltà cristiana occidentale ed è vissuta per secoli in uno stretto rapporto con l’”altra Europa” che per molto tempo ha rappresentato la sopravvivenza di un’area di Cristianità e ha costituito un limite all’espansione della modernità, intesa come insieme di valori globalmente alternativi al cristianesimo e alla sua incidenza politica e sociale, e ha costituito un luogo di resistenza all’aggressione rivoluzionaria.
Ma deve esserci una risposta chiara, convinta e convincente della società meridionale.
Gli esponenti della società civile tutta, i movimenti politici, religiosi, associativi e corporativi si devono ritrovare e interrogare su questi temi per far ripartire il dibattito e per stimolare la nascita di una classe dirigente rinnovata, ringiovanita e soprattutto orgogliosa delle proprie radici e dei propri ideali etici e morali.
È tempo di procedere a un inventario di quanto sopravvive dell’antica civiltà napoletana dopo la così detta “grande trasformazione” e di studiare le radici, i modelli di socialità e la cultura che hanno caratterizzato questa parte d’Italia.
Bisognerà studiare, dunque, le famiglie più che un moralistico familismo, i problemi dell’agricoltura più che un’astratta civiltà contadina, la struttura degl’insediamenti abitativi più che il parassitismo urbano, la produzione e gli scambi economici più che la generica nozione di arretratezza, le organizzazioni di mafia più che lo sfuggente ethos mafioso, nella consapevolezza che la soluzione della Questione Meridionale passa attraverso la rinascita religiosa e civile del Mezzogiorno e il recupero delle sue radici storiche e nazionali, da tempo conculcate e disprezzate.
Utilizzando uno schema hegeliano, se la tesi è che il Mezzogiorno è una questione nazionale da risolvere, se l’antitesi è che il Mezzogiorno è una risorsa da valorizzare per lo sviluppo nazionale, la conseguente sintesi è che il Mezzogiorno è una questione risolta, se la Nazione ne valorizza le potenzialità non in chiave assistenzialistica.
Prof. Cav. Ciro romano